Letteratura

Al rifugio Pagary

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Le Marittime e le Liguri sono state raccontate e descritte con grande efficacia e suggestione da molti scrittori. Questa settimana proponiamo la lettura di un brano di Lalla Romano.

Il rifugio Federici Marchesini al Pagarì | A. Rivelli.

Al rifugio Pagary di Lalla Romano.

Risalivo, sola, la piazza e lo vidi di lontano, con qualcuno. Quando fu a pochi passi, si staccò e mi venne incontro. Disse che sarebbero andati, lui e Gigi, al Pagary, se volevo andare con loro. Era persino meglio di una dichiarazione amorosa: venivo considerata pari e sicuramente non dimenticavano che ero una donna. Era già stato così per la Meja; ma questa volta, chi aveva avuto l’idea?
Il rifugio Pagary, leggendario tra noi, era una piccolissima capanna sui tremila, trattenuta da funi d’acciaio. («Voi delle Marittime, i rifugi li mettete sulle cime», aveva detto il grande Mezzalama).
Era novembre, si doveva accendere la stufa. Lui spaccava la legna sul piccolo spiazzo e la fatica lo scaldava, così che, nonostante il freddo, la sua camicia spiccava bianca nel crepuscolo. C’era qualcosa insieme di avventuroso, di esotico (nel senso di paesi lontani) e di intimo, in quell’immagine, come di già vissuto (o sognato). Si intonava, o meglio esprimeva quanto di rischio e di mistero era in quella luce fredda, in quella solitudine. Nei racconti di Lawrence che avevo appena letto, avevo sentito questo; e per un attimo provai verso di lui un’attrazione violenta, segreta, ma credo già tenacemente profonda. Non era un’idea, era una sensazione: esaltante, ma non inquietante, anzi familiare.

La notte, arrotolate intorno a ognuno le coperte militari spinose, impacchettati come tre grossi neonati o marinai defunti da calare in mare, stavamo allineati – io nel mezzo – sul piancito superiore, suppongo per ricevere un po’ di caldo residuo. Da un finestrino arrivava un tenue chiarore. Nel vento selvaggio le pareti, le funi, tutto vibrava, fischiava, sibilava. I miei due compagni, supini e immobili, avevano calato il berretto di lana fino al naso e dormivano: o fingevano. Intravedevo nel barlume il profilo di lui, che mi sembrò buffo. Ridevo silenziosamente tra me. Ero, chissà perché, felice.

L’indomani risalimmo – con gli sci – il ghiacciaio sotto la Maledia, fino al colle Pagary. Lassù, rannicchiati vicini per scaldarci, restammo a lungo: a contemplare, nel cielo, una città. Una città di nuvole. Si sarà pure trasformata, come fanno le nuvole, ma così impercettibilmente, che pareva ferma, immutabile. Lontana, ma non tanto; erano visibili distintamente cupole, obelischi, minareti: una città orientale. I suoi colori erano delicati, tenui: rosa-arancio, viola.

Esiste una foto piccolissima (erano così allora), un foglietto che è meglio scrutare con la lente, perché l’immagine è un po’ sfocata. La scattò Gigi ovviamente, sulla via del ritorno. C’è un ponte sottile, sul torrente, fatto di due tronchi e coperto di sterpi e frasche, come in una valle sotto l’Himalaya; e sui ponte due figurine di fronte, quasi fosse un incontro. Ma sono assorte, solitarie, e appena rilevate da un riflesso di luce. La ragazza, col sacco, una lunga sottana, gli sci al fianco, guarda di lato; lui, gli sci a spalla, la testa rotonda di profilo, pensoso.

Da: Lalla Romano, Nei mari estremi, Einaudi, 2000.

Ultimo aggiornamento: 07/05/2020

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